Alessandro Volucello
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Della carta stampata qui troviamo i mezzi di produzione, che pressappoco dalla metà del XIX secolo hanno via via “invaso” le città europee, anche solo di media grandezza. Macchinari affascinanti, manovrati il più delle volte da operai che non percepivano i messaggi politici e la propaganda che si celavano dietro ogni frase e, a crescere, dietro ogni articolo (anche oggi, sia pur per mezzi digitali, la conoscenza degli intenti è forse per lo più bassa, da parte di chi collabora alla diffusione di notizie in qualità di operatore, non per sua insita ignoranza, bensì stavolta per maggior raffinatezza del linguaggio politico interessato a fare gregge e condurre). Macchinari con tantissimo meraviglioso acciaio, bronzo e altre leghe, ma pure una discreta quantità di legno (visibile particolarmente nelle impugnature).
I ritmi di quasi chiunque erano i ritmi che permettevano di fare le cose con cura. È così che possiamo godere, oggi, persino di decori sulle gambe lignee di questi pesantissimi strumenti.
C'è un rimando alle attività di don Bosco nel settore (precisamente come creatore della prima scuola di tipografia in Italia) e questo mi è risultato particolarmente gradito, come gradita mi è risultata la libertà con cui ho potuto muovermi e impregnarmi (è il caso di dire) di quelle storie sconosciute di salariati che attorno a quelle «stampanti» avranno trascorso interminabili ore, in genere con basculanti o lineari spostamenti delle braccia (e delle gambe poi, quando si è intuito come sfruttarne la forza).
Ma dietro quelle macchine c'è pure il gran lavoro di chi le ha progettate e di chi le ha fatte conoscere agli editori. Era il periodo della rivoluzione industriale.
C'è pure un “pezzo” di modernariato, per la stampa offset, della Provincia di Cuneo, che attualmente non regge il confronto nel fascino con tutti gli altri (può darsi riuscirà un domani a trasmettere qualcosa).
C’è il calco in due materiali diversi della prima pagina della Stampa che annunciava la nomina a Pontefice di Karol Wojtyla, come un personal computer degli albori di Apple, un Macintosh che sembra arrivare, a tinte sbiadite ma evocanti, da un bel film di qualche decennio fa. Ci sono le riproduzioni audio e video, per contenuti anche interessanti, ma, se vogliamo, evitabili. La cartellonistica, infatti (tra l’altro qui presente e lineare nell’esposizione), generalmente basterebbe a fornire tutte le indicazioni utili per conoscere meglio ciò che si osserva. Inoltre, l’ascolto è disturbato dall’obbligata vicinanza delle casse che diffondono registrazioni diverse.
Devo ammettere di esser rimasto un po’ dispiaciuto per il fatto che non fosse stata erogata sufficiente preparazione a colei che è chiaramente apparsa, fra le due presenti, come sorta di responsabile, sia per l’accoglienza in senso stretto, nel modo di porsi (che è quanto più duole), sia per la conoscenza della gestione dell’eventuale rientro in giornata nel museo. Parlandoci è stato possibile risolvere (intendiamoci), ma un sorriso sincero, e non un’espressione dura, è il puntello di partenza in un luogo aperto al pubblico che il pubblico deve, possibilmente, incantare. Molto affabile e professionale si è rivelata l’altra signorina alla reception (le sue qualità, il mio augurio, possa accadere nel museo in questione o altrove, è che siano riconosciute nel suo cammino lavorativo).
Se consiglio la visita? Sì, la consiglio anche dovendo percorrere varie decine di chilometri. Essa consente di sprofondare per almeno una mezz’ora in un mondo passato, fatto di lettori per strada, nei bistrot e nelle case, custodito fra mura che mai avrebbero potuto esser più adatte. Fatto ancor più del lavoro, spesso notturno, di chi ha potuto deliziare quei lettori stando attaccato alle maliose macchine appena, e sinteticamente, descritte.